martedì 6 marzo 2007

Dico: un pasticcio ideologico (dis) educativo

1. Perché questo dossier?
L’8 febbraio 2007 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge (DDL) il cui titolo è “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, identificato nel linguaggio giornalistico e comune con la parola DICO (DIritti COnviventi).
Il testo, trasmesso al Senato il 20 febbraio, è firmato da cinque Ministri, in primo luogo dal Ministro per i diritti e le pari opportunità (Pollastrini) e dal Ministro per le politiche per la famiglia (Bindi), ed è stato assegnato per l’esame alla Commissione Giustizia, insieme ad altre 9 proposte di origine parlamentare, otto delle quali sono già state commentate nella seconda parte della pubblicazione di Carlo Casini edita dalla Società editrice Fiorentina con il titolo: “Unioni di fatto, matrimonio, figli, tra ideologia e realtà”.
Ma un disegno di legge governativo è molto più importante di una proposta parlamentare. Esso indica la linea che dovrebbe essere seguita dalla maggioranza che sostiene il Governo e dunque – di massima – è quello che ha le più grandi probabilità di essere approvato dal Parlamento. Perciò merita un’attenzione particolare.
Secondo un’opinione, la recente crisi governativa, rapidamente rientrata, potrebbe avere depotenziato la forza del disegno di legge governativo e potrebbe aver condannato all’insabbiamento tutta la discussione sui PACS (alias DICO) divenuta incandescente negli ultimi mesi. Infatti, il Presidente del Consiglio Prodi non ne ha parlato troppo nei suoi interventi che hanno preceduto il voto di fiducia.
Secondo un’altra opinione, prima ancora della crisi il Governo aveva già esaurito la sua funzione presentando il disegno di legge che non è stato ritirato e perciò il Parlamento deve comunque procedere speditamente all’esame della questione.
In questo senso la richiesta dell’ala più radicale della maggioranza del Parlamento resta molto forte. Conviene perciò seguire con molta attenzione il lavoro della Commissione Giustizia del Senato.
Tra il 1997 e il 2004 un lavoro analogo fu compiuto dal Movimento per la Vita e dal Forum delle Famiglie, in stretta collaborazione tra loro, relativamente ai lavori preparatori della legge 40/2004 sulla procreazione artificiale, inviando ai Parlamentari numerosi mini-dossier intitolati “appello alla ragione” e promuovendo numerosi incontri sia con i responsabili dei partiti e delle istituzioni, sia con i singoli Deputati e Senatori a livello locale.
Qualcosa di simile deve essere avviato ora.
Il libro “Unioni di fatto, matrimonio, figli, tra ideologia e realtà” è già un primo strumento: ora occorre proseguire.
Questo esame del disegno di legge governativo comincia ad attuare tale proposito.
2. L’occasione della proposta
Sul finire del 2006, nel progetto di legge finanziaria, qualcuno riuscì ad introdurre una norma che sotto il profilo fiscale supponeva surrettiziamente il riconoscimento dei PACS. Per superare le polemiche scoppiate immediatamente all’interno della stessa maggioranza, il Governo tolse quella disposizione dall’articolato, ma promise che entro la fine del mese di gennaio del 2007 avrebbe presentato un organico disegno di legge sulle coppie di fatto anche omosessuali. Tale promessa non poteva essere dimenticata, perché gli ambienti favorevoli ai PACS continuavano a premere per ottenerne l’adempimento. Secondo alcuni commentatori la conflittualità creatasi sull’argomento tra “cattolici” e “laici” della sinistra poteva costituire un grave ostacolo al progetto di unificazione delle diverse forze in un solo partito (“partito democratico”) e solo la mediazione governativa avrebbe potuto evitare più gravi lacerazioni nella maggioranza.
In effetti il disegno di legge governativo vorrebbe presentarsi come saggia mediazione tra opposte tendenze, ma l’esame delle singole norme mostra che tale mediazione è fallita ed anzi, che è impossibile.
Pur riconoscendo l’intenzione espressa nella relazione che accompagna il testo governativo di non mettere in discussione il primato della famiglia fondata sul matrimonio, la tortuosità redazionale dei singoli articoli e l’equivocità del linguaggio non riescono a nascondere una volontà normativa oggettivamente inaccettabile.
Così, la proposta dei DICO finisce per rafforzare la convinzione che di una legge sulle convivenze di fatto non c’è affatto bisogno, perché qualsiasi legge organica volta al disciplinare specificamente tale oggetto avrebbe l’inevitabile effetto di incrinare la famiglia fondata sul matrimonio.
3. La “ratio legis”
L’occasione per la quale viene emanata una legge non è la sua ragione.
La ratio legis, come dicono i giuristi, è l’anima della legge, il suo perché fondativi e profondo. Essa indica le esigenze alle quali si è voluto dare una risposta. Per individuare la ratio legis bisogna esaminare i singoli articoli e tentare di ridurli ad unità enucleandone il principio ispiratore.
Già nelle prime parole dell’articolo 1 del disegno di legge vi è un inciso rivelatore. Esso è costituito da cinque parole: “anche se dello stesso sesso”. A ben guardare se queste cinque parole venissero cancellate tutto il provvedimento perderebbe significato. Infatti le coppie eterosessuali non hanno molto interesse ad una disciplina organica delle relazioni more uxorio. Infatti se un uomo ed una donna vogliono sposarsi, possono farlo. Niente lo impedisce. Se vogliono convivere senza matrimonio, possono farlo e nessuno può impedirlo. Un precedente matrimonio non è un limite insuperabile né per una diversa relazione more uxorio, né per un nuovo matrimonio, una volta ottenuto il divorzio. Semmai, vi può essere l’interesse ad accelerare al massimo i tempi e le procedure per giungere allo scioglimento del vincolo matrimoniale, ma questo obiettivo investe piuttosto la disciplina divorzista. Tentativi in questa direzione sono stati già compiuti. Il loro insuccesso dimostra che il Parlamento ha ritenuto pericoloso il depotenziamento dell’istituto matrimoniale. D’altra parte la posizione giuridica dei figli naturali è ormai largamente equiparata a quella dei figli legittimi e le esigenze delle persone conviventi more uxorio – maschio e femmina – sono già prese in considerazione, come tra poco vedremo, in varie parti dell’ordinamento.
Perciò il disegno di legge sui DICO risponde essenzialmente alle richieste degli omosessuali e il punto qualificante è il riferimento a “persone anche dello stesso sesso unite da reciproci vincoli affettivi” (articolo 1).
Si può pertanto ragionevolmente sostenere che le proposte, compresa quella governativa, che estendono la disciplina a tutte le coppie di fatto, eterosessuali ed omosessuali, effettuano un primo “mascheramento” nel senso che la domanda di un riconoscimento paramatrimoniale delle relazioni gay viene velata dietro una più facilmente accettabile attenzione verso la situazione delle coppie di fatto eterosessuali.
Ma una seconda “copertura” va “smascherata” nel DDL che stiamo commentando. Nella relazione di accompagnamento si legge che il riferimento alle “persone stabilmente conviventi” non vuole limitarsi alle sole “coppie di fatto”, ma estende l’ambito della legge a tutte le convivenze “caratterizzate da elementi di solidarietà e di assistenza strettamente intrecciati agli elementi di ordine affettivo”. Insomma, il presupposto dei DICO non sarebbe necessariamente “la comunanza di letto”, ma soltanto la “comunanza di tetto”. Che si tratti però di un mascheramento, è del tutto evidente come risulta dai seguenti elementi:
a) la situazione dei DICO è esclusiva: non può essere stabilita da persona che è legata da vincolo matrimoniale (art. 1 n. 1) o da altro DICO (art. 1 n. 7) con altra persona. Ciò sarebbe privo di senso se si volesse dare riconoscimento anche alla solidarietà affettiva non sessuale: una persona sposata può benissimo ospitare stabilmente in casa sua un parente, un amico, una persona bisognosa con cui si instaurino rapporti di solidarietà ed affetto non sessualmente caratterizzati.
b) Se il “valore” fosse la solidarietà affettiva senza “comunanza di letto” non si capisce perché la relazione presa in considerazione debba essere soltanto a due. I fratelli conviventi, i nipoti mantenuti dal nonno, non potrebbero essere più di due? Non sono forse plurime molte comunità di persone con comuni ideali talora di altissimo significato pubblico (case famiglia, centri di accoglienza, gruppi di servizio ai poveri, ecc….) che meriterebbero considerazione indipendentemente dall’esclusiva dualità del rapporto di convivenza?
c) Gli articoli 1 e 2 fissano per i DICO elementi impeditivi assai simili a quelli previsti dal Codice Civile per il matrimonio. Si tratta di alcuni particolari rapporti di parentela, affinità e adozione per i quali non è possibile la dispensa da parte della Autorità giudiziaria ai fini della celebrazione del matrimonio. Si tratta altresì della condanna per omicidio tentato o consumato sul coniuge o sul convivente - che si trovi in situazione di Dico - dell’altra persona con cui si vuole realizzare una situazione di Dico. Tali insuperabili limiti presuppongono necessariamente una relazione sessuale tra i conviventi.
d) Anche la esigenze della reciprocità del vincolo affettivo ai sensi dell’art. 1 manifesta il parallelismo pensato e voluto con la relazione coniugale.
e) Nel linguaggio politico l’”affettività” corrisponde a quella che si esprime nel rapporto sessuale. Sono istruttivi a riguardo i ripetuti dibattiti relativi alla pretesa di escludere la violenza sessuale presunta sui minori o persone malate di mente.
f) L’esigenza che le due parti del DICO siano “maggiorenni e capaci” (articolo 1 n.1) suppone la stipulazione di un patto, il quale ha senso soltanto pensando ad una relazione paramatrimoniale. Se davvero il disegno di legge fosse stato pensato al fine di proteggere e sostenere la convivenza affettiva e di solidarietà non sessualmente caratterizzata, una situazione di fatto poteva certamente ipotizzarsi anche in relazione all’assistenza prestata ad una persona minore di età o comunque incapace. Sono situazioni che con grande frequenza si verificano nella realtà (ad es. un nonno che assiste un nipote minorenne oppure un nipote che assiste un nonno malato di alzhaimer).
In definitiva, è certo che lo scopo principale del disegno di legge – una volta rimosso il duplice mascheramento delle convivenze eterosessuali di fatto e delle convivenze non sessualmente caratterizzate - appare il riconoscimento di significato delle convivenze omosessuali, equiparate alle convivenze “more uxorio”.
4. Una premessa sulla questione omosessuale
Prima ancora di decidere se le coppie eterosessuali extramatrimoniali meritino qualche ulteriore intervento legislativo, è necessario isolare e valutare dal punto di vista giuridico e civile le relazioni stabili omosessuali.
Una premessa è doverosa.
Le persone con tendenze omosessuali hanno una dignità umana del tutto uguale alle altre persone ed hanno ovviamente tutti i diritti che competono alla persona in quanto tale. Deve essere esclusa ogni discriminazione. Deve essere riprovato ed eventualmente punito ogni atteggiamento di irrisione o di emarginazione. Il principio di eguaglianza vale senza distinzioni, per ogni essere umano. Non è certo questa la sede per investigare sulle cause della omosessualità. La persona con tendenze omosessuali può soffrire per questa sua condizione; anche per questo motivo non merita giudizi sommari ed atteggiamenti offensivi.
Dal punto di vista giuridico, tuttavia, proprio il principio di uguaglianza esige che siano trattate in modo uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni diverse.
E’ doveroso prendere atto che la convivenza omosessuale è profondamente diversa dalla relazione matrimoniale (così come quest’ultima è diversa in generale dalle convivenze di fatto non matrimoniali).
5. Il criterio di giudizio
Per rendere semplice e comprensibile la questione basta porsi una domanda: è ancora valido quanto scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, cioè che “la famiglia è nucleo fondamentale della società e dello Stato”?
E’ una affermazione forte, perché se la famiglia è “fondamento dello Stato”, allora lo Stato rischia di rovinare se si indebolisce o addirittura sparisce questo suo “fondamento”.
Possiamo “laicamente” rispondere “sì” alla domanda che ci siamo posti, riflettendo sul fatto che l’unione di un uomo e di una donna garantisce il succedersi delle generazioni e che la famiglia costituisce l’ambiente educativo privilegiato per formare buoni cittadini.
Sono due obiettivi che interessano profondamente lo Stato. Ma essi non possono essere strutturalmente perseguiti dalle unioni omosessuali. Vi è dunque una grande differenza rispetto alle famiglie eterosessuali. La costituzione e la permanenza di queste ultime corrisponde ad un interesse pubblico, cioè della collettività nel suo insieme; se invece due persone dello stesso sesso vogliono convivere non è possibile ravvisare in tale scelta un interesse pubblico, poiché tale situazione rileva solo sul piano della libertà privata, già ampiamente garantita dall’ordinamento.
Chi impedisce a due persone omosessuali di prendere le decisioni che vogliono?
Anzi, la forza dell’ordinamento giuridico si pone a servizio di questa loro libertà: chi usasse la violenza per impedire loro di condurre il descritto menage sarebbe punito come colpevole di una “violenza privata”.
Garantire la libertà è compito dello Stato, ma sarebbe ingiustificato un riconoscimento o sostegno pubblico perché la convivenza omosessuale non costituisce un “nucleo fondamentale” senza del quale lo Stato non potrebbe esistere.
Per cogliere poi la differenza tra famiglia matrimoniale e convivenza di fatto eterosessuale si può fare una seconda domanda: se la famiglia è “nucleo fondamentale”, è giusto o non è giusto che l’atto con cui essa viene costituita sia pensato come qualcosa di estremamente serio, di impegnativo, in quanto non solo dichiarazione di sentimenti verso il coniuge, ma formale assunzione di responsabilità verso la società?
Risponde la Costituzione italiana all’articolo 29: il matrimonio è il fondamento della famiglia, cioè è il “fondamento del fondamento della società e dello Stato”. Parole, anche queste, “laiche” e forti. Se il matrimonio si indebolisce o addirittura si inquina e muore, allora anche la famiglia si incrina ed il danno travolge lo Stato e l’intera società. Il ragionamento finisce qui. Il resto è deduzione logica che non richiede la forza intellettuale dei filosofi o dei matematici.
Un uomo ed una donna non vogliono sposarsi? Nessuno li obbliga a farlo. Utilizzino anch’essi la loro libertà, ma non pretendano che la loro unione sia considerata qualcosa di fondamentale per lo Stato, se essi non vogliono assumere impegni, se preferiscono contrassegnare la loro relazione con la sola autodeterminazione quotidiana individuale.
In definitiva, il giurista propone la chiave di lettura della distinzione tra pubblico e privato: la famiglia fondata sul matrimonio introduce gli affetti privati nello spazio dell’interesse pubblico.
Le semplici convivenze, quale ne sia la natura, si trovano nell’ambito del privato, dove gli interessi individuali possono essere regolati da un’amplissima autonomia privata.
6. Disposizioni inutili (articoli 4,5,7,8,10)
Procediamo ora ad un esame più dettagliato dei singoli articoli del testo.
Si sono strappate lacrime ai telespettatori raccontando che un convivente di fatto eterosessuale od omosessuale non potrebbe assistere in ospedale la persona cui è affettivamente legato. Ma si tratta di un falso. Nessuna norma stabilisce che un malato non possa essere visitato in ospedale da chiunque egli desideri. Gli altri congiunti non possono opporsi. L’autonomia privata decide come vuole. Solo il minorenne e l’incapace sono rappresentati da chi esercita la patria potestà o la tutela, ma il minorenne e l’incapace sono esclusi dall’accesso ai Dico, ai sensi dell’articolo 1 n.1 del disegno di legge. Dunque l’articolo 4, che ammette la visita e l’assistenza di un convivente all’altro convivente ricoverato in ospedale è del tutto inutile. Anzi, tale norma è penalizzante perché attribuisce la competenza di determinare le modalità di accesso del convivente alla struttura ospedaliera. Già ora, provvedono i responsabili della struttura. Ma le regole oggi sono generali, riguardano cioè tutti coloro che il malato accetta nella sua camera. Viceversa l’articolo 4 attribuisce ai responsabili dell’ospedale di regolare l’accesso con riferimento al solo convivente. Con la conseguenza, assurda, che egli potrebbe essere escluso, almeno in determinati momenti, a differenza di altre persone, per semplice decisione amministrativa!
Altrettanto inutile è l’articolo 5, secondo cui ciascun convivente può designare l’altro convivente come suo rappresentante per concorrere alle decisioni in materia di salute nella ipotesi di una sua futura incapacità di intendere e di volere ed anche per quanto riguarda la donazione di organi e le celebrazioni funerarie. Il tutto - dice l’articolo 5 – nei limiti delle leggi vigenti. Orbene le leggi vigenti con le loro norme sull’autonomia privata, sul mandato e sulla rappresentanza già consentono quanto descrive l’articolo 5. Inoltre in base alla legge 9 gennaio 2004 n.6, il convivente può essere nominato a richiesta dell’interessato, o anche d’ufficio, amministratore di sostegno del partner.
Va ricordata anche la legge 1 aprile 1999 n.91 sui trapianti di organi, che chiede ai medici di fornire ogni opportuna informazione - sulle possibilità terapeutiche nonché sulla natura e circostanze del prelievo – anche al convivente more uxorio in alternativa al coniuge non separato.
Anche gli articoli 7 e 8 costituiscono una ripetizione inutile di norme preesistenti. Infatti, già l’articolo 6 della legge 392 del 1978 sulla locazione di immobili destinati ad uso abitativo, come modificato dalla sentenza costituzionale n.404 del 1988, prevede che, in caso di morte del conduttore, nel contratto di affitto subentra il convivente more uxorio e numerose leggi regionali prevedono che anche la convivenza di fatto sia tenuta in considerazione ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare o di edilizia pubblica. Vero è che la decisione costituzionale richiamata si riferisce alle sole unioni more uxorio, cioè alle coppie eterosessuali, sicchè l’articolo 8 del disegno di legge estende il diritto di subentro al convivente omosessuale; ma proprio questo particolare conferma che la proposta ha per obiettivo pressoché esclusivo la equiparazione delle relazioni gay a quelle tra un uomo ed una donna. Va comunque ricordato che già oggi nulla impedisce a due persone omosessuali di stipulare congiuntamente un contratto di locazione. Colui che ci rimette nel disegno di legge è il convivente nell’ambito di una relazione eterosessuale, il cui diritto alla abitazione nel caso di morte del partner è affermato attualmente indipendentemente dalla durata triennale della convivenza e se vi sono figli anche nel caso di cessazione della convivenza per causa diversa dalla morte del compagno/a. Ciò significa che in presenza di figli il giudice può affermare il subentro nel contratto del genitore che tiene i figli sia nel caso che l’altro si sia allontanato, sia qualora il titolare del contratto pretenda di buttare fuori di casa il partner ed i figli. Questa disciplina vigente ha una sua evidente razionalità nella esigenza di tutelare i figli. E’ invece mal formulata l’ultima parte dell’articolo 8 del disegno di legge che consente il subentro nella locazione del convivente che lo chiede anche nel caso di cessazione della convivenza ed a prescindere dalla presenza di figli. Se la fine della relazione avviene perché il partner conduttore dell’alloggio se ne va, non sorgono particolari problemi. Ma il pasticcio avviene se il titolare del contratto non vuole affatto lasciare l’alloggio e pretende che sia l’altro ad andarsene. Proprio quest’altro, secondo la lettera dell’articolo 8, potrebbe chiedere di subentrare nel contratto di locazione e quindi allontanare il partner!
Questa interpretazione è difficilmente sostenibile, ma la scarsa chiarezza della norma rende ipotizzabile in astratto una tale ricostruzione.
Ancora più inutile - perché privo di qualsiasi efficacia normativa - è l’articolo 10 che promette al convivente un trattamento pensionistico di favore. Tale trattamento, peraltro non meglio definito, è solo promesso e non viene certo attribuito. Tale promessa non è in alcun modo vincolante neppure per il legislatore futuro. Solo la Costituzione può prevedere obblighi per il legislatore ordinario, il quale resta invece libero di decidere come vuole quale che sia il contenuto di una precedente legge ordinaria.
In sostanza l’articolo 10 contiene una semplice raccomandazione, un auspicio. E’ evidente però che le raccomandazioni non costituiscono materia di legge, ma, appunto, di raccomandazioni, cioè di atti non legislativi.
7. Disposizioni equivoche, contraddittorie e ingiuste (articoli 1 e 11)
L’articolo 1 dovrebbe rendere certo l’inizio della convivenza, certificare la volontà degli interessati di accedere al regime “Dico”, fissare le condizioni di liceità e di validità di una tale decisione.
Poiché l’elemento formale è costituito dalla iscrizione nei Registri anagrafici, è evidente che non basterà indicare la qualifica di convivente.
La famiglia anagrafica (articolo 4 del d.p.r. 223 del 30 maggio 1989) e la convivenza anagrafica (art 5 del d.p.r. ora citato) sono infatti previste già oggi, ma hanno come unico presupposto il fatto di abitare nello stesso luogo, non la “comunanza di letto”. Perciò è evidente che per far scattare il regime giuridico dei Dico sarà necessario che per i conviventi more uxorio, anche dello stesso sesso, la scheda anagrafica registri qualcosa di più del semplice fatto della convivenza già oggi risultante dai registri. La semplice indicazione di “convivente” non basterà più. Bisognerà aggiungere qualcosa che faccia riferimento alla relazione affettivo-sessuale. Apposite disposizioni dovranno modificare il modo di rilevazione, in modo da evitare confusioni con le convivenze già oggi registrate ai sensi degli articoli 4 e 5 del Regolamento n.223 del 1989 sopra citato.
Occorre quindi rilevare che la dichiarazione all’ufficiale dell’anagrafe è qualcosa di molto simile al matrimonio civile: che la dichiarazione sia formulata dinanzi all’ufficiale di stato civile o dinanzi ad un altro pubblico ufficiale non cambia la sostanza delle cose.
Il disegno di legge, al fine di tranquillizzare l’opinione pubblica, cerca di non considerare la dichiarazione e la iscrizione anagrafica come una forma di matrimonio, dichiarando che la convivenza “è provata dalle risultanze anagrafiche”. Senonchè nessun diritto elencato nella proposta esiste se non vi è l’iscrizione anagrafica della convivenza nelle forme prescritte dall’articolo 1. Tali forme, perciò, non sono soltanto un elemento di prova: esse sono costitutive del regime dei “Dico”, nello stesso modo in cui la celebrazione del matrimonio regolato dal Codice Civile determina lo status di coniuge. Che poi taluni diritti suppongano una certa durata della successiva convivenza (tre o nove anni) e che sia possibile fornire la prova contraria circa la sussistenza dell’affetto, della convivenza stabile, dell’assistenza reciproca, non elimina il fatto che senza l’iscrizione anagrafica non esistono alcuni diritti tra quelli elencati nel disegno di legge.
Nel momento genetico, l’iscrizione ha un ruolo decisivo, quale presupposto essenziale e necessario.
Per attutire l’impressione di una somiglianza con la celebrazione matrimoniale il disegno di legge prevede che la dichiarazione possa essere fatta da un solo soggetto convivente, salvo notifica all’altro con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. Il carattere singolarissimo di questa disposizione salta agli occhi. Se i due convivono sotto lo stesso tetto, addirittura nello stesso letto, che senso ha l’utilizzazione del servizio postale?
L’artificio è evidente. Con il danno che se la convivenza non esiste di fatto o non è voluta dall’altro in forma legale può succedere che una persona distratta, indaffarata, superficiale, se la può vedere imposta con effetti che sarà comunque fastidioso rimuovere in futuro. L’articolo 1 ammette la prova contraria rispetto all’accertamento anagrafico, ma chi decide? Quando? Con quali forme? Il disegno di legge tace su tali non secondari aspetti.
Si potrebbe perfino ipotizzare una violazione del diritto alla riservatezza, in riferimento alla posizione del destinatario della raccomandata.
La fretta con cui è stato redatto l’articolo 1 ha determinato un altro pasticcio. Stabilisce l’ultimo comma dell’articolo 1 (n.7) che “Il convivente non può avviare altra procedura anagrafica ai sensi dei commi 2 e 3”. Lo scopo della norma è evidente: evitare una sorta di poligamia. Ma la formulazione è imprecisa. Non si dice che la stessa persona non può partecipare come parte di più di un Dico, si dice solo che la stessa persona “non può avviare un’altra procedura anagrafica”. Poiché tale procedura può essere “avviata” con una lettera raccomandata, può accadere che un soggetto riceva una molteplicità di lettere inviategli da diverse persone, ciascuna delle quali avvia così una sola procedura. Il destinatario delle diverse raccomandate si trova però coinvolto in diverse procedure. Cosa farà? La norma è formalmente rispettata, ma una medesima persona si potrebbe trovare ad essere convivente con più persone in regime di Dico.
E’ singolare poi che nel primo comma dell’articolo 1 la situazione nascente dai Dico non sia esclusa per i fratelli e le sorelle (parenti in linea collaterale di secondo grado) nonché per i nonni ed i nipoti (parenti in linea retta di secondo grado), mentre è escluso l’accesso al regime dei Dico per gli affini in linea retta fino al secondo grado (nonni dell’ex coniuge).
Se la convivenza da cui derivano i Dico ha come presupposto i caratteri tipizzati in relazione alla convivenza more uxorio, allora il testo finirebbe per legittimare relazioni incestuose.
Se invece l’inclusione del rapporto tra fratelli e del rapporto tra nonni e nipoti è stata fatta per dimostrare l’allargamento dei Dico alle relazioni di affetto e solidarietà non sessualmente caratterizzate, allora a maggior ragione non si comprende l’esclusione degli affini entro il secondo grado in linea retta. Insomma, un vero pasticcio.
Anche l’articolo 11 non è un modello di tecnica redazionale.
Che il convivente possa ricevere per testamento una eredità o un lascito dal partner premorto è ovvio. Tale ovvietà toglie importanza all’intervento del legislatore: la libera determinazione di ciascun convivente può gratificare l’altro con una partecipazione ai vantaggi ereditari. Insomma, anche l’articolo 11 -se non inutile- appare non rispondere ad una grave ed insuperabile urgenza.
Comunque la scelta di emanare una legge speciale per costruire uno status della convivenza di fatto, anziché operare sulle varie norme diffuse nell’ordinamento, genera in sé confusione.
In particolare, la collocazione del tema delle successioni in una legge, al di fuori del Codice Civile, determina già di per sé difetti di coordinamento e difficoltà interpretative.
L’ordinamento giuridico prevede tre tipi di chiamata all’eredità: testamentaria, legittima (in assenza di disposizioni testamentarie) e necessaria (a favore dei legittimari, eventualmente anche contro il testamento). Ad una prima lettura l’articolo 11 potrebbe far pensare alla introduzione dei conviventi nella categoria degli eredi necessari o riservatari perché le quote fissate nel caso di concorso con uno o più figli sono le stesse (un terzo o un quarto) stabilite nell’art.542 del Codice Civile per il coniuge in ipotesi di successione necessaria.
La relazione che accompagna il disegno di legge asserisce che si è voluto disciplinare la sola successione legittima, operante in assenza di testamento redatto dal defunto. Nella norma manca qualunque riferimento alla mancanza di testamento e ciò potrebbe determinare incertezze interpretative. E’ certo, comunque, che l’inserimento del convivente tra gli eredi legittimi, anche in assenza di nomina testamentaria, comprime in grande misura i diritti degli altri successibili ex lege. In particolare, viene gravemente compressa la quota spettante ai figli.
Perciò il disegno di legge allarga i diritti di alcuni, ma riduce i diritti di altri soggetti.
Il testo (articolo 1, quarto comma) subordina i diritti e le facoltà in esso previsti alla “attualità della convivenza”. Perciò i diritti ereditari esistono se al momento della morte del partner la convivenza era in atto. E’ da chiedersi se, nella stessa logica del disegno di legge, ciò sia giusto. E’ vero che anche il convivente divorziato superstite non ha alcun diritto ereditario nei confronti dell’ex coniuge, ma almeno le procedure di divorzio suppongono un periodo di separazione, un tentativo di conciliazione, l’intervento del giudice. La convivenza può cessare, invece, per una unilaterale decisione di uno solo dei due partners, maturata magari improvvisamente in un tempo brevissimo, la cui natura di immediato ripudio non è contestabile. In questo caso, proprio ragioni di solidarietà avrebbero dovuto suggerire la previsione una disciplina della interruzione del rapporto.
8. Una legge “manifesto”
Che cosa resta dei quattordici articoli del disegno di legge?
Restano i rischi – derivanti dall’articolo 6 – di una simulazione di convivenza per realizzare una immigrazione di extracomunitari altrimenti non consentita.
Restano gli obblighi alimentari (articolo 12) che potrebbero comunque essere stabiliti contrattualmente nell’ambito dell’autonomia privata.
Resta l’invito alla contrattazione collettiva al fine di tener conto della convivenza nei trasferimenti e nelle assegnazioni di sede nell’ambito dei rapporti di lavoro, cosa che ben potrebbe essere decisa anche senza una legge ad hoc.
Ben poco.
Sull’altro piatto della bilancia pesa l’ideologia.
L’inutilità di molte norme ed il carattere confuso di altre dimostrano che l’interesse vero del disegno di legge non è la tutela dei soggetti deboli coinvolti nella vicenda affettiva, come pure si sente dire.
Nonostante i tentativi di presentare all’opinione pubblica finalità assistenziali o di cura, lo scopo ultimo del movimento culturale che preme per l’introduzione della disciplina non è legato a ragioni di solidarietà, ma è strettamente connesso all’affermazione di due idee:
a) La prima idea è che le relazioni sessuali e affettive, quali ne siano la natura e gli effetti, rivestono interesse pubblico. Corollario di questa idea è che lo Stato non dovrebbe più limitarsi a garantire la libertà dei comportamenti. Non sarebbe più la generazione e l’educazione dei figli la funzione che rende la famiglia “nucleo fondamentale della società e dello Stato”, come afferma l’articolo 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Sarebbe la relazione affettiva sessualmente caratterizzata il bene meritevole di pubblica protezione. Infatti assicurare diritti analoghi a quelli dei coniugi a due persone dello stesso sesso per il fatto che hanno tra loro una continuativa relazione sessuale, sebbene strutturalmente inidonea a determinare il succedersi delle generazioni, significa considerare di interesse pubblico la relazione medesima.
Ben diversa è la funzione sociale della famiglia, che giustifica la sua tutela e promozione da parte dello Stato laico: garantire il futuro della società e dello Stato attraverso la generazione e l’educazione dei cittadini.
b) La seconda idea è che la relazione sessuale, anche se condotta more uxorio, cioè accompagnata da convivenza ed affetto, ha valore nel suo esistere provvisorio, svincolato da qualsiasi impegno di durata, nella spontaneità di una individuale autodeterminazione quotidiana. Infatti la situazione denominata “Dico” può essere fatta cessare in qualsiasi momento anche unilateralmente, senza nemmeno la necessità di un qualche elemento formale. Il disegno di legge non dedica neppure un rigo alla cessazione della convivenza. Il vincolo matrimoniale può essere sciolto con il divorzio, un istituto che, per quanto discutibile in sé e nella sua concreta disciplina, segnala comunque l’esistenza di un impegno di stabilità, l’interesse pubblico al permanere dell’unione, il carattere eccezionale della sua dissoluzione. Nel “Dico” la normalità è la possibilità quotidiana del ripudio.
In sostanza la legge proposta sembra un “manifesto”, un “proclama” che intende dare autorevolezza sociale ed apprezzabilità etica a sensibilità diffuse, anche se contrastanti con il reale bene comune e con la Costituzione. La reale funzione della legge sembra perciò quella di far prevalere una certa visione ideologica, con effetti “educativi” o, meglio, diseducativi. Se la famiglia è “fondamento della società e dello Stato” (articolo16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo) e se il matrimonio è il “fondamento della famiglia” (articolo 29 della Costituzione), la proclamazione con forza di legge come valore pubblico della convivenza omosessuale e della sessualità priva di impegni fa immaginare effetti che si possono ragionevolmente dire “devastanti” in una società, soprattutto giovanile, che avrebbe bisogno per strette esigenze civili (non religiose!) di una concezione seria ed impegnativa della famiglia e del matrimonio e non certo di un ulteriore stimolo a ritenerne la insignificanza.
Tutti riconoscono che ben altri sono i problemi da affrontare subito per sostenere la famiglia sul piano fiscale, lavorativo, abitativo e delle provvidenze di ogni tipo al fine di renderla efficace risorsa dello stato sociale.
Ritenere invece prioritaria l’introduzione dei Dico conferma il fondamento puramente ideologico di tanta pressione mediatica e politica.
Chi laicamente pensa che la famiglia sia fondamento dello Stato e che il matrimonio sia fondamento della famiglia ha motivo di preoccuparsi.
Laicamente, si intende.
Non per la lesione di un valore religioso, ma in ordine al bene comune.

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